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”La Google tax rappresenta il provincialismo e la cecità della nostra classe dirigente: evitiamo di mandare a Bruxelles i ”trombati” e affrontiamo il tema in quella sede”

Tra gli emendamenti presentati all’interno della legge di stabilità 2014, ho potuto notare come si stia provando ad affrontare una tematica molto importante, legata al web e all’e-commerce.
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Google, Facebook, Yahoo, Linkedin, eBay e molti altri sono sotto l’occhio del fisco italiano, poiché dichiarano spesso i propri redditi in Paesi che hanno un regime fiscale molto più vantaggioso del nostro (Irlanda e Lussemburgo in primis). Il Governo e diversi deputati hanno deciso di affrontare la questione facendo venire questi colossi del web allo scoperto, e costringendoli ad aprire una partita IVA italiana per continuare a offrire servizi web nel nostro Paese.

Come delegato alle questioni europee e occupandomi spesso di temi legati al web e all’agenda digitale, vorrei fare alcune precisazioni su questo soggetto così importante.

Le motivazioni alla base di questa scelta sono sicuramente condivisibili, perché spesso le multinazionali cercano di aggirare la fiscalità locale per fatturare e pagare tasse dove è più vantaggioso. Perciò, concordo con le ragioni di fondo di questo emendamento.

Quello che trovo illogico, incoerente, inefficace, è il metodo con il quale si vuole far pagare queste società: facendo aprire una partita IVA italiana a Google, pensiamo di avere ottenuto qualcosa? Di sicuro vedremo la nostra reputazione europea compromessa, ancora di più. Visto che una tassa del genere è palesemente illegittima da un punto di vista del diritto comunitario, in quanto lesiva della concorrenza.

Avremmo potuto dire: “Per questo tipo di aziende scegliamo di abbassare la tassazione al livello di Irlanda e Lussemburgo”, divenendo noi stessi attrattivi per degli investimenti esteri. E invece no, non vediamo il contesto nel suo complesso e non capiamo che l’Italia è solamente la minima parte di un mercato globale nel quale non siamo più competitivi, oramai, perché governati da una classe dirigente provinciale e cieca nelle proprie scelte.

Oltre che illegittima, infatti, questa tassa sarebbe anche estremamente dannosa, perché con il comma 1 dell’emendamento (“1. I soggetti passivi che intendano acquistare servizi on line sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita IVA italiana”) tutte le aziende –non solo le multinazionali, ma anche piccole start up- sarebbero obbligate ad aprire partita IVA in Italia, con la burocrazia e i costi a essa connessi. Una vera e propria barriera all’ingresso.

Un tema così importante va affrontato a livello europeo, come andrebbe affrontato a livello europeo lo spinoso argomento dell’armonizzazione fiscale. In tutti gli Stati membri dell’Unione Europea le tasse sul lavoro, sul profitto, l’IVA, dovrebbero essere uguali: solo in questo modo si costruisce una vera Unione Europea, che sappia far pagare il giusto prezzo a quelle multinazionali che oggi si prendono gioco di noi.

Purtroppo, a parte rari casi, i nostri eurodeputati non prendono posizione e non incidono in alcun modo sulla legislazione comunitaria e sui lavori del Parlamento Europeo.

Forse sarà il caso, a maggio 2014, con le elezioni europee in vista, di avere una delegazione italiana che sia presente, unita, competente e vogliosa di costruire un’Europa dei cittadini. E che, magari, non sia composta da “trombati” a da politici di lungo corso che devono svernare a Bruxelles.